Il Faust che emerge

Il Faust che emerge

Nel suo Faust Zweiter Teil J. W. Goethe ci descrive, come solo i grandi sanno fare, l’aspirazione umana, rappresentata da un ormai anziano Faust, all’infinito. Sarà la sua dannazione, perché Mefistofele lo farà morire per conservargli questo “attimo di felicità” e reclamare così la sua anima. Bene, ci sono momenti della nostra vita in cui pagheremmo volentieri con la nostra stessa anima per poter fermare il tempo, per aspirare a vedere un futuro migliore, per aspirare a vedere realizzata la felicità, ma come si sa, la felicità non è di questo mondo. Come biasimare allora chi decide di fermare il tempo per serbare per sempre il momento in cui si è stati felici?

Donami destino la tua faccia  più bella,                                                    

Portami davanti al cammino infinito,
Fammi ascoltare la voce di un dio:
Di me non rimane che il corpo di un uomo.
Non m’importa di ciò che il mondo ha creduto,
Ho vissuto momenti di gioia completa,
Mi rimane l’illusione che l’avrei fermata,
Non voglio restare sconfitto e deriso.
Son pochi coloro che mi sapranno capire.
Di loro è l’amore ch’ho saputo donare.
Storia di un’anima infinita

Storia di un’anima infinita

LE RICORDANZE
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l’aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l’aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de’ servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l’allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell’arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell’ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M’era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m’avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l’avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell’imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L’esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d’affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d’angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell’acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
De’ miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai co’ silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! e di te forse non odo
Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond’eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L’antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D’ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Giacomo Leopardi, Canti, XXII
Torniamo a studiare i classici: hanno già detto tutto in modo impareggiabile!
Italia: il Paese delle polemiche sterili

Italia: il Paese delle polemiche sterili

Di questi giorni è la polemica inerente alle cosiddette liberalizzazioni. In un Paese arcaico come il nostro, da un punto di vista sociale e non solo, l’eco suscitata da ogni tipo di iniziativa volta a scardinare i “secolari” privilegi accumulati nel tempo dalle varie componenti sociali ha sempre il tono dell’allarme suscitato da un macellaio all’interno d’un mattatoio. E’ ciclico vedere, ad ogni tentativo in tale direzione, tutte le categorie di parte interessate stracciarsi pubblicamente le vesti, gridando al complotto prima, e manifestando vittismo in cerca di comprensione dopo. Orde di conducenti di taxi nelle strade che lamentano il loro grado di povertà economica (conosco personalmente alcuni di loro e, se una cosa è sicura, non sono certo una categoria che muore di fame, oltre ad essere fra i servizi che maggiormente evadono le tasse con dichiarazioni dei redditi mendaci): poveri tassisti che lamentano, in caso di liberalizzazione del loro mercato lavorativo, la perdita di valore della loro licenza “pagata” molto cara e che dovrebbe costituire il loro “fondo pensione”. Piccolo particolare: la licenza per la conduzione di un taxi è pubblica, cioè rilasciata da un ente pubblico (per lo più comuni) ed è regolamentata dalla legge del 15 gennaio 1992, n°21 che ai paragrafi 8 e 9 regolamenta proprio tale questione: “La licenza per l’esercizio del servizio di taxi e l’autorizzazione per l’esercizio del servizio di noleggio con conducente sono rilasciate dalle amministrazioni comunali, attraverso bando di pubblico concorso, ai singoli che abbiano la proprietà o la disponibilità in leasing del veicolo o natante, che possono gestirle in forma singola o associata.” e ancora “La licenza per l’esercizio del servizio di taxi e l’autorizzazione per l’esercizio del servizio di noleggio con conducente sono trasferite, su richiesta del titolare, a persona dallo stesso designata, purché iscritta nel ruolo di cui all’articolo 6 ed in possesso dei requisiti prescritti, quando il titolare stesso si trovi in una delle seguenti condizioni:…”. Questo significa che è vero che possono “trasferire” la propria licenza pubblica (provvedimento preso immagino per tutelare all’interno di una famiglia la possibilità di avere qualche membro in stato d’occupazione) solo ed unicamente a titolo gratuito. In parole povere, anche se loro l’hanno “comprata” e a caro prezzo, la cosa è del tutto illegale. Se l’hanno fatto è segno che il servizio taxi è uno di quelli che maggiormente garantisce una buona retribuzione, altrimenti sarebbero stati dei folli a sprecare oltre 150.000€ anche per una sola licenza! Addirittura si parla della possibilità d’indennizzare costoro in caso di liberalizzazione per compensare tale perdita di valore. Ora la domanda è una sola: perché? E’ come dire che bisognerebbe costruire con denaro pubblico una casa a chi ha fabbricato abitazioni su suolo demaniale abusivamente e che, giustamente, vengono abbattute. Stesso discorso vale per tutte le altre feudali categorie quali quelle dei farmacisti, dei notai, degli avvocati, dei giornalisti, ecc. ecc. fin ad arrivare ai gestori nazionali di gas ed energia.
Il problema è che questo Paese morto non avrà mai la capacità di emendare se stesso, perché è nell’animo degli italiani, come più volte ho detto, il guardare al proprio orticello, senza una visione d’insieme, senza una visione di futuro, molto probabilmente proprio senza un futuro!
Un uomo diverso

Un uomo diverso

Ci sono momenti della vita in cui il pudore ci rende ancor più deboli.
La debolezza è parte del pudore stesso, del sentirsi inadeguati, del vergognarsi di come si è diventati.
Non si vorrebbe che gli altri ci vedessero in quei momenti. Non si vorrebbe che la nostra debolezza ci esponesse al giudizio di chi non ci conosce, di chi sa poco di noi, di chi in altri momenti ci ha visti sotto un’altra luce, di chi per noi era importante che serbasse un ricordo migliore. Ma la vita non sempre c’è amica, anzi a volte s’accanisce e ci atterra. E’ difficile reagire in quei momenti ed il solo sostegno alla nostra dignità è ciò che conosciamo meglio, ciò che sappiamo fare meglio, ciò di cui ci siamo nutriti nei tempi migliori. Ciascuno cerca rifugio in se stesso per cercare di sopravvivere: forse è per questo che ho iniziato questo blog, visto che non m’è riuscito fare altro. Mi sarebbe piaciuto essere un uomo diverso, migliore forse: non è andata bene.
E’ umano, ma fa male, fa molto male!
Storia di un Paese morto 2

Storia di un Paese morto 2

Sono di ieri le notizie del voto contrario della Camera all’arresto del deputato del Pdl Nicola Cosentino e del voto contrario all’ammissibilità del Referendum per l’abolizione dell’attuale legge elettorale, la cosiddetta “porcellum” del deputato leghista Calderoli, da parte della Consulta di Stato. Il primo di fatto ha visto il trionfo del teatrino della nostra politica da strapazzo, portata avanti da gente da strapazzo, messa a scaldare i banchi di Montecitorio da altra gente da strapazzo come loro. Il noto piduista, nonché referente, per aver ricevuto abbondanti fondi per creare il suo impero economico, da parte della mafia, il deputato Sillvo Berlusconi, nonché l’altro noto inciucione celodurista, ruttatore ed elargitore del dito medio alle telecamere, ovvero il sen. Umberto Bossi, assieme ad una schiera di gentucola, come sembrano essersi ridotti i Radicali, nonché assieme ad un folto gruppo di loro sodali di schieramenti vari, hanno dato il meglio di sé votando “no” all’arresto di colui che secondo la magistratura, o meglio, secondo tre giudici, è il referente del clan dei Casalesi in Parlamento. Fin qui la cronaca riportataci da giornali e televisioni, ma in realtà questo episodio è stato semplicemente l’ennesima conferma che il nostro Parlamento altro non è che un’accozzaglia del fior fiore della società italiana, che va dai ladri, ai corrotti e corruttori, ai delinquenti fino alle ballerine e le puttane (non che le due cose spesso non siano unite). Per lo più sembra un circo, visto dall’esterno. Dall’interno, cioé da casa nostra, è una drammatica farsa.
Il secondo fatto del giorno (mai giornata negli ultimi tempi fu più feconda di chicche a livello politico) è stata l’inamissibilità dell’abrogazione, tramite referendum popolare, della legge anche grazie alla quale è possibile vedere il bello spettacolo di cui sopra in Parlamento, cioé quella che ha permesso di creare un Parlamento di nominati dai “signori” della politica e non di eletti dal popolo. Il sospetto che abbia ragione il leader dell’Idv Antonio di Pietro è effettivamente molto forte, cioé che la decisione sia stata presa per fare “un favore” al nostro esimio presidente della Repubblica, re Giorgio Napolitano, che poco avrebbe gradito la possibilità di vedere “in pericolo” l’attuale compagine governativa di “tecnici”, da lui tanto caldeggiata, a causa di uno sconquasso a livello istituzionale creato da questa cosa.
Se a tutto ciò aggiungiamo altre notiziole tipo quella dell'”espatrio” di fondi da parte, proprio della forcaiola Lega nei confronti di Roma ladrona (pecunia non olet, dicevano saggiamente i latini), nonché vessillifera di una politca nettamente contraria a coinvolgere qualunque cosa che contemplasse il recarsi a più di 3 km a sud di Fantasilandia, ops… della Padania, in quel di Tanzania (solo 4,5 milioni di euro dei nostri rimborsi elettorali di cui godono tutti i partiti in barba al referendum sull’abolizione del loro finanziamento pubblico), nonché qualcosina anche in quel di Cipro, sempre abbastanza a sud dell'”isola che non c’è” del popolo leghista, e qualcosina anche in quel di Norvegia, dove i tassi di rendimento sono inferiori a quelli dei fondi d’investimento italiani, ma stanno al “fresco” essendo al Nord, dicevo, se il quadro è questo, mi sembra che altro non sia che la descrizione molto realistica di un bel Paese morto. Amen!
Io so

Io so

Senofonte nella sua Anabasi distingueva tra i verbi greci οἶδα (sapere perché si è visto) e γιγνώσκω (sapere perché ci è stato riferito). Anche il verbo μαρτυρέω sta a significare la testimonianza. Di seguito il famoso passo di uno dei più grandi intellettuali italiani, uno che, al contrario di quanto troppo spesso avviene oggi, non aveva paura di testimoniare le proprie idee, per le quali ha dato la propria vita.


Cos’è questo golpe? Io so

di Pier Paolo Pasolini

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato. 
 
 
 
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