Lettera aperta al mio Paese

Lettera aperta al mio Paese

Gli antichi Greci o Romani avrebbero detto che si tratta di un segno distintivo di civiltà, ma oggi sembra essere solo una bella utopia destinata alle pagine di un blog come questo o a qualche articolo di giornale considerato “di parte”. In ogni caso sarebbe bello poter vivere in un Paese che offra ai suoi cittadini la possibilità di vedere applicati i principi in base ai quali poter vivere, crescere, studiare, lavorare e morire in modo dignitoso, sufficiente, appagante, giusto. E’ forse proprio il senso di giustizia che è oramai venuto meno nella nostra società: un diffuso senso d’impunità, a tutti i livelli, fa sì che ciascuno si senta in diritto di violare le regole del “vivere civile”, da quando si guida la propria auto a quando si fa la fila in un ente sanitario, da quando si aspetta il proprio turrno d’entrata in un museo a quando si devono pagare le tasse.
Molti sono i fattori che, a mio parere, hanno contribuito, soprattutto in questi ultimi anni, al continuo degrado sociale:
  • una classe politica non all’altezza del compito cui era chiamata a svolgere indistintamente, senza differenze significative tra partiti politici di destra, sinistra o centro, tanto che non si apprezzano più peculiarità che facciano distinguere le une dalle altre: la politica è diventata un mestiere, ma non per professionisti bensì per mestieranti che hanno visto in questo tipo di carriera un facile modo per arricchirsi e raggiungere un “potere” che difficilmente sarebbe stato loro concesso in altro modo, men che mai in un altro Paese;
  • altro contributo sostianziale, per quanto paradossale possa sembrare, l’ha dato la televisione, soprattutto le televisioni dell’attuale presidente del Consiglio, con i suoi programmi di vasto pubblico, programmi molto “popolari”, nell’accezione peggiore del termine, che hanno fatto leva sulla parte voyeuristica della cosiddetta “gente comune”. Maestri nell’aprire il campo a tali tipo di programmi sono stati due veri “boss” della televisione italiana: Maurizio Costanzo e sua moglie Maria de Filippi. Da ottimi cavalli di razza nel precorrere le tendenze di facile percorrimento nel raggiungimento del più vasto pubblico possibile per la tv commerciale hanno, prima di altri, colto la possibilità infinita di sfruttamento data dal rendere “protagonista” appunto la “gente comune” della tv in diretta. In pratica hanno aperto la possibilità a chiunque di apparire, senza badare al talento personale o alla professionalità, dando a chiunque l’illusione di essere il protagonista di una realtà fantastica facilmente raggiungibile solo attraverso il proprio mostrarsi in pubblico con tutti i proprii difetti e carenze umane,  non rendendosi conto di essere in realtà al centro di una farsa ben architettata. Di qui i vari protagonismi dei “grande fratello”, piuttosto che dei programmi della cosiddetta tv del dolore, dove l’esporsi porta ad una notorietà rapida seppur a scapito della propria dignità e del senso del pudore. 

Platone nel Protagora dice che Zeus diede a tutti gli uomini aido e dike, cioè il pudore (o meglio la capacità di provare vergogna) e la giustizia: bene, proprio questi due sono ormai venuti meno nella nostra società e per questa ragione non si ha più il senso della misura. Ciò va inteso nel senso più laico possibile, scevro da considerazioni di carattere religioso che non m’appartengono.

Dunque l’incapacità di provare vergogna, il diffuso senso d’impunità e, quindi, l’esser venuto meno il senso di giustizia hanno giocato un ruolo decisivo nel progressivo decadimento del Paese, ma secondo me non basta a spiegare il fenomeno. Purtroppo a questi fattori determinanti va aggiunto l’atavico senso d’attaccamento del popolo italiano al proprio “orto”: la res publica non fa più parte del costume intimo di questa nazione dalla caduta dell’impero romano in poi. L’arte d’arrangiarsi e del fare da sé e per se stessi hanno caratterizzato per secoli l’indole italica. E’ inutile andare ad analizzare qui le cause profonde di questo fenomeno principalmente italiano: sarebbe lungo e complicato. Il risultato purtroppo si vede nell’ambito sociale. Ciò non toglie che gli italiani presi singolarmente, individuo per individuo, non siano senza dubbio alcuno fra le persone più “comprensive” e piacevoli da frequentare; nell’analisi di un’intera società, però, non possono trovare accoglimento valido a spiegare i valori sui quali questa si fonda.
I danni arrecati al Paese da anni di “assenza politica”, intesa nel più largo senso del termine, saranno a mio parere estremamente difficili da riparare. Pochi sono ancora i fermenti sociali che tentano di ribellarsi a questo andazzo tristemente consolidato. La crisi economica forse costituirà una base comune, di larga scala, per stimolare un cambiamento. Il principio è più o meno lo stesso che spinge un individuo malato nella psiche a rivolgersi all’analista: finché non prova un bisogno insopprimibile d’aiuto non si rende neanche conto di essere ammalato; quando lo farà sarà allora sulla via della guarigione. Così il Paese: finché non ci sarà un diffuso malcontento che richieda una seria pausa di riflessione circa i principi sui quali stiamo fondando il nostro incerto futuro, finché non ci si renderà conto che per iniziare la salita occorre partire dal basso, eliminando le basi sulle quali ci siamo tutti mossi fin qui, iniziando dal cambiare radicalmente la classe politica che ci avrebbe dovuti guidare verso un futuro migliore del nostro attuale presente, finché non torneremo a capire che la cultura è un valore irrinunciabile perché su di essa si fonda la capacità di distinguere ciò che è importante e ciò che è superfluo, rendendoci individui autonomi nei confronti del mondo, fintanto che non capiremo che investire ora sul progresso scientifico, sull’innovazione tecnologica, pensando al futuro e non al guadagno prestente sarà la più certa garanzia di successo per le generazioni a venire, evitando gli sbagli fatti da quella dei nostri padri, finché non impareremo ad accettare che il bene comune è anche il nostro bene privato, temo che il mio Paese, il Paese che in fondo amo come non mai, non avrà futuro nel mondo che sta cambiando a vista d’occhio e che di certo non ci aspetterà.
Un pesce fuor d’acqua

Un pesce fuor d’acqua

Have you ever had the sensation to be like a fish out of the bowl? Well, this is the exact sensation that I always had since I was a child.
To feel yourself into unsatisfactory clothes, to be in the wrong place, in the wrong time.
First of all in my family: the only person that had the same kind of sensibility was my grandmother: she hadn’t an huge culture (she was orphan when she was 7, with 3 brothers and 1 sister, the most adult of which was 17, and we were in 1918), however she was very sensitive, probably too much, like me!
To attend school with rich stupid people, to think about my future in another country while I was like in jail at home. Studying philosophy when the world around you were completely oriented to practical matters, hoping for the future, hoping for the best, hoping that the things will going better…
Unfortunately hope after hope the good willing have crashed down: why? I don’t know… Maybe I have been too little clever, or persistent… maybe that an envious god had decided that it should have to be so…
I have tried, this is the only thing that I can say to myself to justify to be still alive!
As Somebody said: “the real is rational, and the rational is real”, that’s the only thing that counts! However in the life of everybody there are some imponderable variables that don’t allow to change the flow of the events, even if you fight with all your strenght: if we were ancient greeks we could say that it’s your own fate!

Maybe that I have  unconsciously ever known my own fate, and this is the reason why I have ever felt myself a fish out of the bowl.

Le cose belle della vita

Le cose belle della vita

Il primo vagito del neonato che urla tutta la sua disperazione per il trauma d’essere venuto al mondo
Il primo fiore che s’apre al Sole del mattino appena sorto
Il primo amore provato all’improvviso un giorno
Il primo bacio inaspettato ricevuto
La prima volta che hai pianto per profonda commozione
La prima volta che hai provato il dolore profondo della disperazione
L’ultima volta che sei stato capace di provare stupore
La prossima volta che t’aprirai ad un sorriso

Se nella tua vita c’è stato, c’è o ci sarà ancora tutto questo varrà la pena aver vissuto

La vallata delle ombre morte

La vallata delle ombre morte

Avrei voluto fare l’ingegnere quando la mano non arrivava a prendere i biscotti sulla tavola
Avrei voluto fare l’avvocato quando la vita inizava a fiorire verso l’altra metà del mondo
Avrei voluto sposarmi, avere dei figli, una vita proiettata verso altre nazioni quando la società stabiliva che ero “cresciuto”
Avrei voluto una compagna, nel cuore e nello spirito, con cui condividere il mondo che si apriva a mille prospettive quando avevo oramai abbandonato gli ideali familiari
Avrei voluto qualche soddisfazione tratta dalle scelte difficili fatte in precedenza, perché il mondo mi doveva un po’ di giustizia, quando ancora avevo la voglia di lottare
Avrei voluto, forse non ho saputo, forse avrei dovuto fare di più, forse avrei dovuto andare via, forse avrei dovuto… forse…

Ora non voglio più niente ed anche i forse fanno parte della vallata delle ombre che sono morte

Once upon a time

Once upon a time

C’era una volta un Bel Paese dove vivevano milioni di cittadini felici, governati da un sovrano giusto e lungimirante.
C’era una volta un Bel Paese dove chi s’impegnava e dava il proprio contributo alla crescita comune veniva ripagato da una società che lo gratificava e supportava nei suoi bisogni.
C’era una volta un Bel Paese dove l’ingiustizia ed il nepotismo non avevano posto alcuno.
C’era una volta un Bel Paese dove le proprie idee trovavano il giusto rispetto ed accoglimento e dove non v’erano altri che ti dicevano cosa e come pensare su ogni cosa.
C’era una volta un Bel Paese dove non c’erano rappresentanti di “esseri superiori” che condizionavano la vita dei cittadini nati liberi nei corpi e nei pensieri per natura.
C’era una volta un Bel Paese dove l’essere umano era al primo posto.

C’era una volta un Bel Paese, ma questa è tutta un’altra storia: è la favola di una vita che non c’è!

Ich glaube an Nicths mehr, Ich habe keine Hoffnung mehr, Nichts wird mich mehr erstaunen Koennen!

Ich glaube an Nicths mehr, Ich habe keine Hoffnung mehr, Nichts wird mich mehr erstaunen Koennen!

I not longer believe in anything, I not longer hope in anything,I not longer will be astonished by anything!
Je ne crois plus
en rien, je n’espere pas plus rien, je ne jamais plus me surprendre de rien!
Non credo più a niente, non spero più in niente, non mi stupirò mai più di niente!

No creo más en nada, no espero más nada, no me maravillaré mas de nada!

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Storia di un Paese morto

Storia di un Paese morto

A voler essere poco pessimisti questa italiana degli ultimi 30 anni è la storia di un Paese morto!
Il futuro di questa nazione è stato “venduto” circa 30 anni fa dall’allora governo Craxi, tanto osannato oggi da nostalgici di non si sa bene cosa. Per la politica allora messa in opera, che avrebbe rimandato alle generazioni future il compito di farsi carico del debito pubblico comune, fece sì che all’epoca sembrasse che il Paese avesse una rinascita politico-economica eccezionale, ma era solo un bluff. Il conto era solo rimandato ed i conti, prima o poi, si pagano. Quel lontano futuro in cui si sarebbe dovuto pagare è arrivato: oggi, ciascun italiano ha sulla propria testa un debito pubblico di circa 30.000€, neonati inclusi! Craxi fu quello che diede un’impennata al nostro debito pubblico, ma altri ancora si aggiunsero a contribuire alla crescita dello stesso: governo Amato (1992-93), Ciampi (1993-94), Berlusconi (1994-95), Dini (1995-96), Prodi (1996-98), D’Alema (1998-2000), Amato (2000-01), Berlusconi (2001-06), Prodi (2006-08) ed infine Berlusconi di nuovo.
L’assoluta miopia di una classe dirigente inetta ha fatto sì che non si sia investito sul futuro del Paese: né in cultura, né in innovazione tecnologica, con una visione del mondo ristretta e provinciale. A tutto questo aggiungiamo un’evasione fiscale che non ha eguali al mondo: oltre 300 miliardi l’anno, una cifra enorme che da sola basterebbe a sanare molti dei “mali” della nostra economia e del nostro stato sociale. Per non parlare poi dell’Ici non fatta pagare al Vaticano (propietario di circa 100.000 immobili) stimata intorno ai 700milioni di euro/anno, aggiunti ai circa 600m di esenzione d’Ires, Irap ed altre imposte, con poi circa 600m di evasione fiscale del turismo organizzato da enti cattolici, per non parlare dell’8 per mille, calcolato in circa 1miliardo di euro. Fra tutte le varie cifre di privilegi di cui usufruisce il Vaticano si giunge ad un ammontare di circa 4miliardi l’anno.
L’economia sommersa, per lo più dovuta a “lavoro irregolare” ammonta a circa 255-275miliardi di euro (stime istat del 2008 davano già questa tendenza come certa).
Se a tutto ciò aggiungiamo una serie di privilegi e corruzioni sociali diffuse a tutti i livelli, una classe politica, dirigente, imprenditoriale, culturale che non si rinnova da anni, l’incapacità di emancipazione dal giogo cattolico sullo Stato che dovrebbe essere laico a tutti gli effetti, una iniquità sociale che è sotto gli occhi di tutti, la domanda sorge spontanea: perché mai un giovane dovrebbe rimanere in un Paese come questo?
Si sostiene, per avallare la falsa opinione che tende a minimizzare l’attuale situazione, che “all’estero” non è che sia meglio, non è che sia tutto rose e fiori. Questo in alcuni Paesi sarà pur vero, ma non è affatto la regola generale. E’ vero, la corruzione esiste anche in civilissimi Paesi quali la Germania, ad esempio, ma in proporzioni, rispetto all’Italia, di 1 a 9, con la non trascurabile differenza che quando un reato è accertato i colpevoli si dimettono, se ricoprono cariche sociali, e vengono sanzionati immediatamente dalla legge, per lo più con il carcere. Da noi è l’eccezione quest’ultima ipotesi. E’ preferibile pagare le tasse in un Paese che ci restituisce ciò che paghiamo in servizi ed efficenza o vogliamo continuare a dire che “però in Italia c’è il Sole, il buon cibo, uno stile di vita (credo che ben pochi se lo possano permettere oramai) certamente più tranquillo. Per non parlare del carattere degli italiani, sicuramente popolo socievole e tollerante, tranne quando si va ad intaccare il privilegio del singolo cittadino, che sarebbe capace di uccidere per la propria macchina o il proprio televisore a led di ultima generazione…
Ciò che ho sempre trovato singolare nell’esaminare le differenze tra i cosiddetti “popoli nordici” e quello italiano è la considerazione totalmente differente che hanno le due tipologie della cosa pubblica: per i primi è in primo piano, per i secondi l’esatto contrario. L’italiano medio non considera un problema avere la strada nella quale passeggia sporca e dissestata, purché la propria casa sia un castello degno delle migliori fiabe; per un cittadino inglese o tedesco è l’esatto contrario. Le madri italiane (giustamente in questo caso, solo perché considero la guerra l’ultima delle ipotesi praticabili in assoluto) hanno sempre avuto come primo pensiero quello di disperarsi per l’andata in guerra dei propri figli, per quelle inglesi (che immagino non provassero ad ogni modo piacere) il primo pensiero era quello di fare il proprio dovere per la Patria (concetto che non considero sacro ed intoccabile). Insomma il rispetto (senza andare a considerare vicende molto particolari come quella appena descritta) per la res publica è la maggiore differenza che ho sempre riscontrato. Bene, è proprio questo concetto che l’italiano non riesce a capire; per l’italiano il motto che più s’addice è:  “armiamoci e partite”, perché le responsabilità sono sempre di qualcun altro!
Questo è un bel inizio per descrivere un Paese: è la descrizione di un Paese morto!
Incontro

Incontro

Il meriggio s’annunciava cupo all’orizzonte del mio domani
Nuvole nere lasciavano cadere gocce che pesantemente risuonavano nella mia anima
Immaginando un futuro prossimo cupo e doloroso
La sera ho scoperto quanto sia potente il sentimento che temevo
E capisco che dovrei fuggire lontano per preservare un labile equilibrio:
domani avrò la forza di decidere, domani avrò forse gli occhiali per vedere la realtà
Ora ho solo voglia di dormire, per non sentire le gocce cadere nella mia anima, per non
immaginare il mio futuro di dolore, per sfuggire al dolore, per non pensare a te!

Cotidie morimur

Cotidie morimur

“Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae, et tunc quoque cum crescimus vita decrescit. Infantiam amisimus, deinde pueritiam, deinde adulescentiam. Usque ad hesternum quidquid trans;t temporis perit; hunc ipsum quem agimus diem cum morte dividimus. Quemadmodum clepsydram non extremum stilicidium exhaurit sed quidquid ante defluxit, sic ultima hora qua esse desinimus non sola mortem facit sed sola consummat; tunc ad illam pervenimus, sed diu venimus.” Seneca, Epistulae, III, 24

 

Moriamo ogni giorno; ogni giorno ci viene tolta una parte della vita, e anche quando ancora cresciamo, la vita decresce. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri è ormai perduto; anche questo giorno che stiamo vivendo lo dividiamo con la morte. Come la clessidra non la vuota l’ultima goccia d’acqua, ma tutta quella defluita prima, così l’ora estrema, che mette fine alla nostra vita, non provoca da sola la morte, ma da sola la compie; così noi vi giungiamo in quel momento, da tempo, però, vi siamo diretti.

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Everybody lies