Who is the next?

Who is the next?

Nothing will never change! Nothing, unfortunately.
The destiny of Italy is to be a slave country. It has been clear yesterday when Silvio Berlusconi has been absolved from the criminal offence related to the sex scandal of Rubi (Bunga bunga). The problem is not this (even if it’s the result of the laws that he made during his Government). The problem is why he has been absolved. The italian Prime Minister, Matteo Renzi, would like to make deep changings into italian Constitution and Berlusconi is the chief of the other political party that would like to do the same (only the Movement 5 Stars would like to stop the destruction of our Bill of Rights, according to the illegal plan of Licio Gelli and the american and bad italian secret services). They will do it, unfortunately. They are destroying our country as it happened in Greece, selling all the public companies to private banks and international companies. We are going forward to a period in which we will pay for working (to mantain our jobs and our positions into the job market), without Rights, without a sure future, without political reference points, without reference models. This is a war and it seems to me that They are winning. I wish I’m wrong! 

Una situazione grave, per non dire disperata

Una situazione grave, per non dire disperata

La situazione è grave, anzi direi gravissima. Ciò che sta accadendo in Italia non ha precedenti e, cosa questa che ha dell’incredibile, nel silenzio generale dei cosiddetti “intellettuali” e costituzionalisti di tutto il Paese. Tranne qualche sporadica eccezione che,  purtroppo, ha ben poca risonanza. Io non so se il fatto di essere all’interno del Paese non faccia ben rendere conto di cosa stia in realtà accadendo, ma vista da fuori la cosa è abbastanza chiara nella sua gravità: stanno letteralmente distruggendo le basi democratiche e le istituzioni del nostro Paese, con la complicità più o meno cosciente di personagiucoli da strapazzo, quali quelli della nostra attuale classe politica. La “smania” di riforme, della Costituzione in primis, non è casuale, bensì,  a mio parere, è un lucido piano di smantellamento delle istituzioni repubblicane (cosa questa già in parte attuata in Grecia ed altri Paesi europei) messa in atto “usando” dei giovani incompetenti, messi lì alla bisogna e fatti scientemente passare come il “nuovo” che avanza e cambia le cose.
Un intero Paese obnubilato dai suoi problemucci interni ed ovviamente coinvolto dal crescente tasso d’impoverimento quotidiano (non frutto di circostanze, bensì voluto ad hoc).
Non c’è che dire! Il piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli, rivisitato e modificato secondo nuove necessità e variazioni impreviste (leggi Movimento 5 stelle) nel quadro politico italiano. E, ripeto, tutto questo nell’assordante silenzio della cosiddetta Intellighenzia di questo nostro povero Paese. Direi purtroppo che non c’è molta speranza
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Berlino centro del Mediterraneo

Berlino centro del Mediterraneo

Berlin liegt am Mittelmeer, ovvero Berlino si trova nel Mediterraneo: questo è il titolo del libro di Roberto Giardina, giornalista e scrittore che da molti anni vive e lavora in Germania,  presentato ieri presso l’Istituto italiano di cultura della capitale tedesca, nel corso di un dibattito-intervista condotto dall’attrice Elettra di Salvo. Quest’opera è il frutto della traduzione nella lingua germanica di parti di suoi precedenti libri –L´altra Europa, L´Europa e le vie del Mediterraneo e Itinerari erotici– tutti pubblicati in Italia da Bompiani, e che a Berlino vede la luce per le stampe dell’editore Avinus.
No, il significato del titolo non è un ossimoro, come potrebbe sembrare a prima vista. Lo si può già intuire a partire dal sottotitolo: Un viaggio immaginario attraverso l’Europa. In un viaggio infatti ci conduce l’autore, partendo da Creta, la terra in cui tutto ciò che si è sviluppato nel vecchio continente ha avuto origine, per poi passare dalla sua terra natìa, la Sicilia, e salire pian piano lungo tutto lo Stivale; varcate poi le Alpi in Svizzera, luogo di passaggio, arriva in Germania, visitandone le città principali. Approda infine alla sua meta,Berlino per l’appunto.
L’Europa dunque, così antica ma anche così piccola, geograficamente parlando. Quella di Giardina non è un’Europa dei confini nazionali, bensì quella dei popoli dove, a ben guardare, ci si accorge che le similitudini fra i luoghi e le usanze dei suoi abitanti sono in realtà ben maggiori di quanto si possa immaginare. Così, ad esempio, si comprende perché a Berlino si trovino opere architettoniche neoclassiche di Schinkel, apparentemente ispirate alla Grecia, pur non essendo mai stato il famoso architetto prussiano in quel Paese: l’aveva semplicemente immaginata, mitizzandola. Stessa cosa per le opere letterarie di Goethe, che più in là della Sicilia non si era mai spinto. In ogni luogo dunque si può trovare un misto di realtà e fantasia, così come gli scambi culturali e storici hanno forgiato l’intero continente. Oggi più che in passato i confini hanno perso il loro significato letterale. Uomini di tutte le nazioni si spostano oltre le proprie frontiere, contribuendo ancor più a questo scambio culturale e sociale, rendendoci tutti cittadini di una sola nazione ideale. Nel Settecento Immanuel Kant non si spostò mai dalla sua Königsberg eppure, dalle notizie che riceveva da corrieri, riusciva a crearsi un quadro di posti anche lontanissimi, certamente immaginandoli, ma rendendoli in fondo un po’ a suo modo reali e più vicini di quanto non lo fossero.
Giardina, alla fine del suo viaggio, come già molti altri italiani prima di lui, Pirandello in testa, approda a Berlino. La città di Marlene Dietrich, figlia mai amata eppure così tanto legata a questa sua città “madre”. E proprio come tutti i figli hanno alcune caratteristiche dei propri genitori, così questi ultimi sono uno specchio amplificato dei pregi e dei difetti della loro prole. Berlino, questa madre-matrigna dell’attrice Marlene, è anch’essa una diva, e come tutte le dive ci affascina, ci seduce, ci rende un po’ suoi schiavi, pur non essendo bella come altre sue consorelle-rivali in Europa. La si ama a prescindere, perché è diversa, perché è strana, perché non è una Metropoli, perché è tutto e non è nulla. E’ una parte di noi, da qualunque luogo di origine si provenga ed in lei ci riconosciamo sentendoci a casa. Sì, Berlino è decisamente al centro del Mediterraneo!

Una storia come tante

Una storia come tante

Questa è una storia vera, una storia d’amicizia e lealtà. La persona che me la raccontò non c’è più e certo non si sarebbe mai immaginata di finire in un racconto come questo.

Italia, 1942. Fausto era un giovane ufficiale di complemento, con incarico di traduttore presso gli alti comandi tedeschi. Proveniva da un paesino della provincia di Rieti, Castel di Tora, sul lago del Turano, a pochi chilometri da Carsoli. Quest’ultimo era un centro nevralgico per l’esercito tedesco nell’Italia centrale, durante la seconda guerra mondiale, ed ospitava un ospedale militare aperto anche ai civili per tre giorni alla settimana.

Franz era un ufficiale medico della Wehrmacht (Forza di difesa) tedesca, di stanza in quel presidio medico. Era nato a Berlino, 26 anni prima, ed era uno poco tagliato per la guerra, come Fausto del resto; forse pure per questa ragione fra i due era subito nata una simpatia spontanea.

Ad unirli, inoltre, c’era il comune amore per le lettere antiche (Franz andava in guerra con Tito Livio in tasca mentre Fausto insegnava Latino e Greco) e la poesia tedesca ottocentesca; Hölderlin ed Heine in particolare, anche se le poesie di quest’ultimo Franz le doveva recitare quasi di nascosto, poiché era di origine ebraica.

I giorni sembravano passare in fretta in quel periodo e, con il trascorrere dei tragici avvenimenti della guerra, si accumulavano in mesi. Accadde così che, in un giorno di ottobre, due caccia spitfire della RAF (Royal Air Force) britannica venissero abbattuti dalla contraerea tedesca presente nella zona.

I piloti riuscirono a lanciarsi fuori dei veicoli prima della loro esplosione e subito furono cercati dalle pattuglie germaniche ed italiane. Per loro fortuna furono trovati dagli abitanti del paese e subito nascosti sui monti circostanti.

Si sa, italiani brava gente, e Fausto incarnava alla perfezione questo stereotipo. Pertanto ben presto i due inglesi si ritrovarono a mangiare in casa sua, anche per sfuggire alla morsa del freddo invernale che sui monti della Sabina è particolarmente rigido.

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, così Franz, che si trovava a passare con una pattuglia da quelle parti, decise proprio quel giorno di andare a far visita al suo amico italiano. Mein Freund, wo bist du? Gridò spalancando la porta del tinello dove i tre stavano mangiando.

Ci sono momenti nella vita di ciascun individuo in cui ci si sente il sangue gelare nelle vene. Questo è appunto quello che accadde ai presenti in quella stanza. I due piloti inglesi, ovviamente in abiti civili, guardarono l’ufficiale tedesco tenendo in sospeso nell’aria il cucchiaio ricolmo di una calda brodaglia, che voleva somigliare ad una minestra.

Gli occhi di Fausto e Franz s’incrociarono: le parole non avrebbero saputo descrivere lo stato d’animo che sentivano crescere proprio lì, alla bocca dello stomaco, come se qualcuno gli avesse dato ad entrambi un calcio con gli anfibi militari.

Un senso di smarrimento, quasi di disperazione per tutti e due. Lo sguardo sa spesso esprimere sentimenti e sensazioni come nessun altro mezzo di comunicazione sa fare; ed è proprio attraverso lo sguardo che dovette passare fra i due un messaggio misto di fiducia tradita, smarrimento e richiesta d’aiuto, da ambo le parti. Passarono pochi secondi, ma sembrarono essere un’eternità.

Poi, come un raggio di Sole fra le nubi nere che coprono il cielo, arrivarono le parole dell’amico che c’era dietro la divisa, lo stesso amico con il quale fino a pochi giorni prima Fausto aveva condiviso la gioia di quei versi stupendi: Der Herbstwind rüttelt die Bäume, Die Nacht ist feucht und kalt*…

Lieber Freund, du bist im Moment beschäftigt wie ich sehe. Du hast Gäste bei dir. Ich werde ein anderes mal kommen **, disse Franz girandosi verso la porta. Poi salutò con un cenno della mano con la quale stringeva forte i guanti che si era appena poco prima sfilati, nell’entrare con entusiasmo. Fausto gli sorrise, quasi a liberare l’anima da quella morsa. E rispose a mezza voce: Bis bald, mein Freund!

Non parlarono più di quell’episodio. Arrivò il settembre del ’43. L’Armistizio sanzionò una separazione “formale” fra i due amici di un tempo. Tuttavia ciò che lega due anime non può essere separato da un’uniforme. Franz continuò ad aiutare l’amico di un tempo, cercando di “proteggerlo” dalle ire del comando tedesco, ormai nemico dell’esercito italiano.

Quando arrivarono gli americani ed i tedeschi si ritirarono oltre la Linea Gotica, Franz scrisse una cartolina a Fausto per dargli sue notizie e dirgli che stava in salvo, sulla strada per la Germania. L’indirizzo che mise per non comprometterlo direttamente fu: “Alla signora Comune Castel di Tora”, ed il messaggio era “Ich bin zu Hause”***.

Dopo la guerra, si rincontrarono solo una volta, molti anni dopo, a Berlino.

Chi fra voi visitasse Castel di Tora, nella bella Sabina, potrà leggere una scritta sulla tomba di un certo Fausto D., posta nel piccolo cimitero del paese: “Scuote gli alberi il vento d’autunno, nella notte umida e gelida; avvolto nel mio grigio mantello, cavalco tutto solo nel bosco…”*.

A Berlino invece, il visitatore di quello di Dorotheenstädtischer, poco distante dalla tomba di Bertolt Brecht troverà quella di un certo Franz K. Sopra ci sono incise quest’altre parole: “Der Herbstwind rüttelt die Bäume, Die Nacht ist feucht und kalt; Gehüllt im grauen Mantel Reite ich einsam, einsam im Wald”*.

Un silenzioso filo lega questi due “sconosciuti”: ora sapete il perché.

* Scuote gli alberi il vento d’autunno, nella notte umida e gelida… (Scuote gli alberi il vento d’autunno, di H. Heine)
** Bene amico mio, vedo che sei occupato. Hai ospiti. Tornerò un’altra volta.
*** Sono arrivato a casa
“Give me a fulcrum, and I shall move the world”

“Give me a fulcrum, and I shall move the world”

Reference points are important in our life. With reference points I mean all those things that give us the idea of a possible future, a sense for daily life, a goal to reach. Until few years ago the world had great ideologies and each of these ideologies had values to pursue. These values were our leading figures. Over the later years they are disappeared because the ideologies seem to be disappeared and people are confused. In many countries all over the world there is a sort of a single thought and people seem to give up of thinking, looking for new leaders who give them new values to reach. This is the great disease of the present age. There is a sort of Big Brother of the novel Nineteen Eighty-Four by George Orwell and it seems not be allowed to think in a different way from the way of thinking of the opinion leaders who speak through the use of media. The opinion of people is made by what media say, so if you control media you control people, accomplish the single though. The only way to escape from a such situation is to study, to read a lot, to make up for lost capacities to criticize the world in which we live, the world that other people has prepared for us, without our contribution and our permission. It’s a war, and as in all wars it will take time, much time and will be many victims, too!
Gerhard Thieme –  Archimedes
Strani incontri in un cimitero

Strani incontri in un cimitero

Quando abitavo a Roma una volta l’anno, con la bella stagione, usavo andare a visitare il cimitero acattolico situato a fianco del celebre monumento funebre, fatto a forma di piramide, di Caio Cestio, uno dei membri del Collegio dei Septemviri.
Tale mio rito era dovuto sia al fatto che il luogo è molto bello e suggestivo, sia all’alto numero di tombe di personaggi famosi in esso presenti. Stiamo parlando di nomi quali i poeti Keats e Shelley, i filosofi A. Gramsci e A. Labriola, gli scrittori L. d’Eramo e C. E. Gadda, la giornalista e scrittrice M. Mafai, il fisico B. Pontecorvo ed il figlio del grandissimo poeta e scrittore tedesco J. W. Goethe, August. Questi solo per citarne alcuni dei più conosciuti.
Sarò un tipo stravagante, ma ho sempre trovato i posti dedicati alla “pace eterna” luoghi splendidi per passeggiare, proprio perché permettono dietro le loro mura di allontanarsi dal caos cittadino, contemplando in genere nel silenzio più totale, rotto solo dal cinguettio degli uccellini, monumenti funebri talvolta anche di discreto valore artistico.
Fu così che quando mi stabilii a Berlino decisi un pomeriggio di visitare un piccolo cimitero, quello di S. Matteo (Der Alte St.-Matthäus-Kirchhof), uno degli oltre 200 presenti nella capitale tedesca, situato in Großgörschenstraße a due passi dalla fermata della U-Bahn Yorckstraße,.
Ci sono posti altamente suggestivi, che ti danno una sensazione di atmosfera magica e surreale. Quello che stavo visitando ne fa sicuramente parte.
Era primavera inoltrata e l’aria aveva un profumo di natura in pieno risveglio. M’incamminai per il vialetto che dall’entrata principale corre in salita lungo una collinetta. A destra e sinistra praticelli molto curati con una serie di tombe segnalate a distanze uguali da semplici lapidi stese in terra. Più avanti s’intravedevano piccole costruzioni che immaginai fossero cappelle di famiglia.
A metà salita girai per un viottolo sterrato. Meditavo sulla bellezza del posto quando ad un tratto fui attirato da un luccichio proveniente da dietro un cespuglio. Mi avvicinai, guardai un po’ meglio, e scorsi fra il folto della vegetazione una cosa incredibile: una scarpina di vetro. Lì per lì rimasi sbalordito, ma poi, trovandomi in una città stravagante come Berlino, pensai che potesse essere un soprammobile un po’ kitsch, finito in quel posto chissà come.
Ripresi a passeggiare e notai una serie di belle statue, disposte in fila. Dovevo essere arrivato in un’area riservata a gente sicuramente benestante, vista la differenza con le tombe poste all’entrata.
D’improvviso un ranocchio attraversò il vialetto gracidando e sparì come un lampo nel folto della vegetazione. Ci doveva essere uno stagno o quantomeno una fontana da qualche parte, pensai, ma non ne scorsi traccia in nessuna direzione.
Arrivai nei pressi di un alto muro e girato l’angolo vidi un bell’albero di mele. Avevo fame così ne colsi una e le diedi un morso. Era molto saporita e non mi so spiegare come mai non mi stupii più di tanto di aver trovato in un cimitero un albero da frutto, come fosse normale che stesse lì.
L’atmosfera aveva sempre di più qualcosa di strano e mi pareva quasi di stare in un luogo fuori dal tempo.
Arrivato in cima alla salita mi attirò una di quelle piccole costruzioni che pensavo fossero le cappelle di qualche famiglia nobile. Era tutta colorata. Mi avvicinai e notai che l’aspetto delle finestre era un po’ strano: in effetti erano dipinte. Provai a toccarle e con mia grandissima sorpresa me ne rimase un pezzo in mano.
Aveva una consistenza molto simile a quella della mollica di pane e questo mi spinse ad odorarlo prima ed assaggiarlo con la lingua poi: incredibile a dirsi, ma era proprio marzapane. È vero che Berlino è una città di artisti e gente anche un po’ eccentrica, ma fino a questo punto… riflettei.
Non feci a tempo a finire di stupirmi della cosa che udii alle mie spalle come un ringhio di cane. “Cos’altro deve capitare?”, dissi fra me e me girandomi. Vidi ben chiari i denti di quello che sembrava a prima vista un lupo, per niente intenzionato a darmi il tempo di capire su come potesse trovarsi lì, in quel posto.
Nobilmente decisi che fosse il caso di tentare la fuga e senza pensarci due volte iniziai a correre nella direzione opposta. Sentivo che l’animale ansimava alle mie spalle e capivo che non avrebbe tardato a raggiungermi. Arrivai all’angolo del vialetto e nel tentativo di percorrere la curva scivolai su un cappuccio di stoffa rosso, cadendo come un sacco.
Non ricordo più nulla di quello che successe poi. Dovevo essere svenuto sbattendo sul terreno. Quel che so è che quando mi risvegliai il lupo, miracolosamente, non c’era più. Mi sollevai, diedi una spolverata ai jeans imbiancati ed alzai lo sguardo. Davanti a me c’erano quattro tombe. Su due di queste i nomi incisi sopra attirarono la mia attenzione: Wilhelm e Jacob. Il loro cognome era Grimm*.
Visitate il vecchio cimitero di S. Matteo. Chissà che non capiti anche a voi di fare stranissimi incontri come i miei.
Il grande male dell’Europa

Il grande male dell’Europa

Niente di nuovo sotto il Sole, purtroppo. Già perché l’Italia era e deve continuare ad essere la schiava perenne dei voleri altrui, così come si merita d’altronde. Luigi Pintor, storico e memorabile fondatore del Manifesto, ebbe una volta a scrivere “non moriremo democristiani”. Si sbagliava, purtroppo. Si sbagliava non solo perché i democristiani non sono mai morti in Italia, bensì si sono diffusi, ma soprattutto perché altri vogliono che sia così, come ha ben espresso quel bel personaggio del “venerabile” gran maestro Licio Gelli pochi giorni fa in un’intervista al Fatto quotidiano. I riferimenti a Renzi sono del tutto voluti. Ci sarebbe inoltre da chiedersi come abbia fatto parecchio tempo fa a “vaticinare” che una sua eventuale guida del PD avrebbe dato al partito un 40% di voti e che al contrario una guida dell’allora segretario Bersani non avrebbe prodotto più del 25%, cosa che puntualmente avvenne alle politiche. Come diceva un predecessore illustre dello stesso partito di Renzi, Andreotti, uomo sicuramente di ben altra statura politica, a pensar male è peccato, ma spesso ci s’indovina.
Guarda caso gli unici due Paesi in cui le cose sono rimaste come prima sono stati proprio la Germania e l’Italia. La Germania a guida dell’ottusa Cancelliera Merkel (ho in altre parti criticato la politica a dir poco miope del primo ministro tedesco) e con cani da guardia dell’andazzo economico attuale del calibro di Wolfgang Schäuble, Ministro delle Finanze del Governo tedesco. L’Italia, neanche a dirlo, guidata da un parroco di campagnia, sponsorizzato dai Poteri che guidano attualmente l’Europa, accompagnato da una masnada di giovani inetti. Non c’è che dire un bel quadretto. Tutto questo mentre in Europa, ovviamente, la protesta monta ed i partiti euroscettici trionfano in Francia, Gran Bretagna ed Austria. I socialisti perdono seggi e molto probabilmente arriveranno ad una Große Koalition proprio con il PPE della Merkel. La sinistra ha avuto un buon risultato in Grecia con Syriza il partito guidato da A. Tsipras, ma in Italia la lista con il suo nome, molto probabilmente confluirà nei Socialisti, buona grazia di Vendola (la versione di “sinistra” di vendi fuffa, quella di destra è ovviamente Renzi visto che Berlusconi è praticamente deceduto). Tralascio l’analisi dei partiti conservatori europei, quale quello polacco PO.
Ovviamente i “Mercati” hanno premiato il voto italiano e lo spread è miracolosamente rimasto su livelli accettabili. Guarda caso. Non scordiamoci che fra pochissimo ci sarà il semestre europeo a guida italiana e per guidare bene ci vogliono buoni “auspici”.
Quindi tutto cambia per nulla cambiare, come al solito. Un’Europa sconfitta su tutta la linea: partiti neofascisti e neonazisti, come nelle più classiche delle iconografie dei periodi di crisi economiche fortissime, da una parte; partiti politici di “sinistra” senza idee e forze nel migliore dei casi, complici nel peggiore dei Poteri forti che fin qui hanno comandato nella politica e nell’economia nel vecchio continente e, per finire, gli stessi che comandavano prima che si scambieranno solamente le poltrone. Povera Europa, poveri tutti noi!

Una gioia immeritata

Una gioia immeritata

La bellezza del celeberrimo 4° movimento della nona sinfonia di L.V. Beethoven, meglio conosciuto come “Inno alla gioia” An die Freude  (testo di Schiller) non si merita uno spettacolo come quello messo in scena in tutta Europa dai vari partiti politici presenti in ogni Paese dell’Unione.
Giusto per ricordarne le parole:

« O Freunde, nicht diese Töne!
Sondern laßt uns angenehmere
anstimmen und freudenvollere.
Freude! Freude!

Freude, schöner Götterfunken
Tochter aus Elysium,
Wir betreten feuertrunken,
Himmlische, dein Heiligtum!
Deine Zauber binden wieder
Was die Mode streng geteilt;
Alle Menschen werden Brüder,
Wo dein sanfter Flügel weilt.

Wem der große Wurf gelungen,
Eines Freundes Freund zu sein;
Wer ein holdes Weib errungen,
Mische seinen Jubel ein!
Ja, wer auch nur eine Seele
Sein nennt auf dem Erdenrund!
Und wer’s nie gekonnt, der stehle
Weinend sich aus diesem Bund!

Freude trinken alle Wesen
An den Brüsten der Natur;
Alle Guten, alle Bösen
Folgen ihrer Rosenspur.
Küsse gab sie uns und Reben,
Einen Freund, geprüft im Tod;
Wollust ward dem Wurm gegeben,
Und der Cherub steht vor Gott.

Froh, wie seine Sonnen fliegen
Durch des Himmels prächt’gen Plan,
Laufet, Brüder, eure Bahn,
Freudig, wie ein Held zum Siegen.

Seid umschlungen, Millionen!
Diesen Kuß der ganzen Welt!
Brüder, über’m Sternenzelt
Muß ein lieber Vater wohnen.
Ihr stürzt nieder, Millionen?
Ahnest du den Schöpfer, Welt?
Such’ ihn über’m Sternenzelt!
Über Sternen muß er wohnen.

Freude heißt die starke Feder
In der ewigen Natur.
Freude, Freude treibt die Räder
In der großen Weltenuhr.
Blumen lockt sie aus den Keimen,
Sonnen aus dem Firmament,
Sphären rollt sie in den Räumen,
Die des Sehers Rohr nicht kennt.»

« O amici, non questi suoni!
ma intoniamone altri
più piacevoli, e più gioiosi.
Gioia! Gioia!

Gioia, bella scintilla divina,
figlia di Elisio,
noi entriamo ebbri e frementi,
celeste, nel tuo tempio.
Il tuo fascino riunisce
ciò che la moda separò
ogni uomo s’affratella
dove la tua ala soave freme.

L’uomo a cui la sorte benevola,
concesse il dono di un amico,
chi ha ottenuto una donna leggiadra,
unisca il suo giubilo al nostro!
Sì, – chi anche una sola anima
possa dir sua nel mondo!
Chi invece non c’è riuscito,
lasci piangente e furtivo questa compagnia!

Gioia bevono tutti i viventi
dai seni della natura;
vanno i buoni e i malvagi
sul sentiero suo di rose!
Baci ci ha dato e uva, un amico,
provato fino alla morte!
La voluttà fu concessa al verme,
e il cherubino sta davanti a Dio!

Lieti, come i suoi astri volano
attraverso la volta splendida del cielo,
percorrete, fratelli, la vostra strada,
gioiosi, come un eroe verso la vittoria.

Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
Fratelli, sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
Vi inginocchiate, moltitudini?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Cercalo sopra il cielo stellato!
Sopra le stelle deve abitare!

“Gioia” si chiama la forte molla
che sta nella natura eterna.
Gioia, gioia aziona le ruote
nel grande meccanismo del mondo.
Essa attrae fuori i fiori dalle gemme,
gli astri dal firmamento,
conduce le stelle nello spazio,
che il canocchiale dell’osservatore non vede.»

Una storia berlinese

Una storia berlinese

Non avevo molto da fare quel pomeriggio dell’estate del 2012, fu così che decisi di andare a visitare l’allora da poco restaurato museo della Stasi, Ministerium für Staatssicherheit (il Ministero della sicurezza di Stato) ovvero la terribile polizia della DDR, nel quartiere di Lichtenberg, a poche centinaia di metri dalla stazione di Magdalenenstraße.
Arrivai sul posto verso le tre del pomeriggio, quando il sole è alto in cielo e ripararsi all’ombra è l’unica cosa che si abbia voglia di fare. La vista del bruttissimo palazzo mi convinse ancor più ad entrare in fretta e trovare tanto rifugio dal calore per la mia pelle, quanto la salvezza per il mio senso dell’estetica.
Pagai il biglietto ed iniziai la visita. Tralascerò qui i particolari dei numerosi oggetti di spionaggio presenti al primo piano dell’edificio, nonché la struttura organizzativa ampiamente documentata anche attraverso numerosi reperti di arredo al secondo.
Ciò che mi attirava maggiormente era l’idea dei documenti inerenti la “resistenza” presenti al terzo piano, così mi affrettai a salirvi. Storie di uomini che si erano sacrificati nel tentativo di opporsi al regime; preziose testimonianze salvate grazie ad un gruppo di dimostranti che nel 1990 si batté affinché gli ex funzionari del Ministero non le distruggessero per coprire i propri crimini.
Iniziai a passare in rassegna quella documentazione e mi soffermai su di un elenco di uomini che erano stati imprigionati e successivamente giustiziati dalla terribile polizia. Mentre ero assorto nella lettura avvertii la presenza di qualcuno alle mie spalle.
Mi girai e vidi un uomo sui 70 anni che osservava dietro due spesse lenti lo stesso elenco di nomi; un po’ più dietro c’era una donna, ancora affascinante nonostante il candore dei lunghi capelli ne denunciasse un’età non più tenera.
“Entschuldigung”, mi disse come a scusare la sua presenza. “Di nulla”, scappò a me in italiano. “Ah, lei è italiano!”, esclamò l’uomo a sua volta, “È raro che italiani vengano a visitare posti come questo. Non è una meta turistica per eccellenza, anzi!”. “Sì, è vero, forse perché i più s’annoiano a seguire le Vite degli altri” replicai io per citare il bellissimo film di F. Henckel von Donnersmarck, Das Leben der Anderen in tedesco. “Magari pensano semplicemente che siano un po’ tutte uguali”.
L’uomo mi guardò fisso, con lo sguardo di chi è stato abituato nella vita a dare peso alle parole, anche quelle uscite dalla bocca in modo casuale. Dietro il vetro spesso degli occhiali due pupille di un verde intenso, seppur rarefatto dal passare degli anni, mi trafissero come se avessi buttato dell’alcool sopra una ferita aperta. Percepii di aver smosso inconsapevolmente un mare di ricordi.
Dopo poco sembrò rilassarsi, si girò lentamente come per vedere se fosse ascoltato da altri e, con un sorriso bonario, mi disse: “Vede, giovanotto, le storie alle volte sono molto lunghe e complesse. Perfino troppo difficili da capire per chi le ha vissute in prima persona”.
Capii che c’era dell’altro dietro e lo incalzai: “Ne deduco che lei ne abbia una molto interessante da raccontare. Sono curioso, mi dica”. “La annoierei di sicuro” replicò lui. “Per giunta, non ho avuto una vita così interessante; almeno non più di quella di tanti altri, che hanno avuta meno fortuna!”.
Detto ciò si girò come per uscire, mentre ero rimasto sospeso ad ascoltarlo. Mi aveva come rapito con il tono della sua voce profonda e suadente. Non m’era mai accaduto prima d’allora. Capii che non avrei dovuto farmi scappare un’occasione come quella e con un tono quasi balbettante replicai: “No, no, al contrario. Si fermi per favore. Sono molto interessato a sapere i particolari della sua storia”.
“Sa”, dissi subito io aggrappandomi alla prima sciocchezza che mi passasse per la testa, “sto facendo la mia tesi di dottorato in storia contemporanea e mi interessa tutto di questo periodo”.
Il misterioso tizio comprese che mi stavo arrampicando sugli specchi, ma io insistei. “Veramente, la prego. Ho bisogno di spunti per finire il mio lavoro ed una persona come lei, che parli la mia lingua per giunta, quando mi ricapiterà?”. L’uomo che s’era avviato verso l’uscita, si fermò. Si girò e guardandomi mi disse: “Va bene. Ma non qui. Mia moglie è stanca e fra poco torneremo in albergo. Vediamoci lì domani mattina, per le 10. Storkower Straße 162. Mi raccomando, sia puntuale”. Non mi diede neanche il tempo di replicare e s’avvio fuori della stanza, così come aveva già fatto la donna che scopersi in quell’istante essere la moglie.
L’indomani mattina ero talmente eccitato all’idea dell’incontro che arrivai in zona, a Prenzlauer Berg, con più di mezz’ora d’anticipo. All’ora concordata entrai nella hall dell’hotel. Lui era già lì, seduto su una poltrona di pelle marrone; mi avvicinai e s’alzò salutandomi con un inchino. Mi fece sedere sul divano di fronte e disse con tono riflessivo: “Sa, ho pensato molto se avessi fatto bene ad invitarla qui per parlare. Ho capito che lei è un giornalista, ma questo non è il problema”.
“L’unica remora ce l’ha la mia coscienza, ed è forse proprio per liberarla che ho deciso d’incontrala”. Rimasi interdetto. Aveva capito chi fossi in realtà e nel contempo mi stava incuriosendo sempre di più con quella sua aria di mistero. Decisi di giocare a carte scoperte e m’affrettai a dirgli: “Lei ha ragione, signor…?”. “Non ha molta importanza il mio nome, almeno per il momento”, replicò pacato. “Bene, allora la chiamerò signor B, visto che siamo a Berlino”.
Che banalità, pensai, ma al momento non m’era venuto niente di meglio in mente. “Le dicevo che ha ragione, sono un giornalista, ma questo non vuol dire che ciò che lei ha da dirmi debba sfociare necessariamente in una storia da pubblicare. Il mio è più che altro interesse personale.” Il che era anche vero.
“Va bene”, replicò mister B, fingendo di credermi.
“Allora, questa storia ebbe inizio quando i sovietici costruirono il muro. Era l’agosto del 1961. Allora avevo 15 anni, quella bellissima età in cui si crede che i sogni siano realizzabili e sempre alla portata della tua mano. È giusto che sia così, ma non sapevo quanto fossi ingenuo e quanto ancora avessi da imparare dalla vita. Vivevamo con i miei in questo quartiere. Mio padre era arrivato con tutta la famiglia dopo la guerra, in cerca di fortuna ed in fuga dalla fame nera che c’era al suo paese, giù in Basilicata. L’infanzia l’avevo passata tra lo studio e la rabbia di non riuscire a capire chi fossi realmente: il figlio d’immigrati, un giovane naturalizzato tedesco o semplicemente un ragazzo in crisi d’identità.
Parlavo perfettamente la lingua, perché se in un posto ci cresci fin da piccolo ti risulta più facile fingere d’appartenergli. Avevo amici, compagni di giochi ed avventure con cui dividere e condividere le esperienze della vita che ci si apriva davanti ogni giorno diversa, ogni giorno uguale. Tutto questo fino a quella mattina per l’appunto, quando vedemmo le strade divise letteralmente in due da filo spinato prima e blocchetti di cemento poi. Molti di noi scapparono ad Ovest, ma non tutti.
Per diverse ragioni. Quella nostra fu che mio padre non voleva abbandonare mia nonna, già vecchia e molto malata; lei non sarebbe potuta scappare, così restammo assieme. Fu una scelta dura, di quelle che decidono dell’esistenza di più individui. Per me, posso dire oggi, fu anche la causa della mia dannazione”. Mentre parlava mi accorgevo che la voce gli si faceva pesante e le parole gli uscivano quasi a forza dalla bocca, come a testimoniare un peso portato sulla coscienza per anni. Ero sempre più incuriosito ed avevo una genuina voglia di sapere che travalicava il mio mestiere. Dopo poco riprese il racconto.
“I primi tempi furono durissimi: gli amici che rimasero dall’altra parte erano persi per sempre. Molti di loro non li ho rivisti neanche dopo la caduta del muro, perché erano morti. Parte dei nostri parenti erano scappati con metodi rocamboleschi ed i contatti diventarono sempre di più sporadici. Comunque anche nelle situazioni più terribili s’impara a fare l’abitudine alle piccole cose quotidiane, così, per indolenza forse, o forse più semplicemente per sopravvivere e non impazzire. Questo accadde e ce ne facemmo tutti una ragione, chi più e chi meno in modo sincero.
Avevo un amico, il mio più caro amico d’infanzia. Il suo nome era Franz. Lui sì che era un tedesco “puro” e non un “mezzosangue” come me. Con lui avevamo condiviso proprio tutto: i giochi, i primi amori adolescenziali, il consolarsi a vicenda per le pene che questi danno, le prime sbronze che ti fanno credere d’essere un uomo vero. Franz era un idealista. Quello che si potrebbe definire un uomo di principi. Era di un’altra pasta, un romantico in un certo senso. Biondo, occhi azzurri, alto. Il prototipo della razza ariana avrebbero detto di lui i nazisti fino a pochi anni prima.
In realtà nessuno più di lui era l’esatto contrario del conformismo e della banalità che deriva dalla disciplina cieca verso un ideale di repressione e forza. Gli ideali che lo animavano ne facevano un giovane uomo illuminato, uno di quelli che sta dieci anni avanti agli altri, oltre il suo tempo contemporaneo. Forse per questo aveva deciso che quel mondo che gli si era stretto attorno come una morsa, quella costrizione oltre quel maledetto muro, non poteva limitare il suo modo d’essere, la sua innata voglia di libertà. Così aveva deciso di far parte della resistenza a quella forza bruta che gli si era scagliata addosso suo malgrado: era diventato uno degli elementi principali della squadra che organizzava le fughe verso l’Ovest”.
Mentre mi raccontava questo splendido spaccato di vita, percepivo che la parte più “pesante” doveva ancora venire a galla. Dopo una pausa in cui rimase come in meditazione, riprese così il discorso: “Il guaio per me è che non era il solo. Deve sapere che di quel movimento, per così dire, sovversivo faceva parte anche una splendida creatura di nome Helen. Era forse la cosa che più di ogni altra al mondo aveva la capacità di rendermi debole. E sto parlando di quella debolezza che si prova quando si è difronte all’oggetto del nostro amore, dei nostri pensieri costanti, di tutto ciò che ci fa sentire degna la vita di essere vissuta. In altre parole ne ero follemente innamorato. Già, di un amore inconfessato ed inconfessabile, perché lei, la mia sola ragione di vita, era felicemente legata proprio a Franz. Era tutto ciò il mio tormento e la mia disperazione nascosta.
Il tempo passava in fretta in quel periodo e gli avvenimenti s’accavallavano a volte senza che neanche ce ne rendessimo conto. Accadde tutto una notte del ’70. La Stasi, la terribile polizia dell’Est, fece una retata ed imprigionò Helen. La portarono nel carcere di Hohenschönhausen, fra il dolore di Franz ed il mio silente pianto di disperazione. Fui preso dal panico e non sapevo cosa fare, poi, d’improvviso mi venne una dannata idea. La sola idea che non avrei dovuto avere e della quale mi sarei pentito per il resto della vita. Mi recai nell’ufficio del capo della polizia segreta per suggellare un patto tremendo, il patto che, come per Faust, m’avrebbe dannata l’anima per sempre: la liberazione di Helen in cambio di uno dei capi della “resistenza”, in cambio della testa del mio fraterno amico Franz.
Fu così, mio giovane amico, che salvai una celestiale creatura, ma che dannai per sempre me stesso.
Franz fu arrestato, imprigionato e successivamente giustiziato. Helen fu liberata secondo i patti. Ci diedero un passaporto e ci fecero passare dall’altra parte del muro, attraverso il Glienicker Brücke. Lei non seppe mai più nulla del suo amore e credette che fosse morto durante un’azione della polizia.”
Rimase in silenzio per alcuni minuti ed io con lui, pensando a quanto gli fosse costato tenersi dentro tutto ciò per tutti quegli anni, senza probabilmente confessarlo a nessuno prima di me. Poi, alzò lo sguardo e mi disse: “Capisce ora? Fra i nomi presenti su quell’elenco che stava osservando ieri, nomi di eroi, ve ne era uno a me particolarmente caro: quello di Franz”. Si fermò, mi fisso per alcuni istanti, poi distolse lo sguardo e s’alzò in piedi rivolgendosi a qualcuno alle mie spalle. “Helen, mia cara, sei già arrivata? Andiamo pure a fare i nostri giri allora. Tanto con il signore abbiamo finito di scambiare due chiacchiere.” Poi girandosi verso di me disse: “Mi spiace, non la posso aiutare, non conosco la persona di cui mi ha parlato” e, prendendo sotto braccio la donna tanto amata si diresse verso la porta dell’albergo, sparendo come in un sogno.
Rimasi di sasso e non mi alzai per una ventina di minuti.
Andate a visitare il museo della Stasi in Ruschestraße. Forse troverete anche voi il nome di un Franz fra quei lunghi elenchi.
Piccolo viaggio semiserio verso il cuore produttivo della Germania

Piccolo viaggio semiserio verso il cuore produttivo della Germania


Mi è capitato recentemente di andare a trovare una mia amica nel sud della Germania, ad Heidenheim, ridente (si usa dire sempre così quando non si conoscono i pregi ed i difetti dei posti) cittadina a circa 30 km dalla più conosciuta Ulm, città quest’ultima che diede i natali ad Albert Einstein.

Non avendo voglia di fare un viaggio così lungo da solo in macchina e volendo evitare cambi di treno ho deciso di andare in pullman. Sarà massacrante, mi ero detto, ma al contrario è stata un’esperienza che consiglio a quanti vogliano conoscere meglio il Paese ed i suoi abitanti.

Memore di quanto racconta nel suo De origine et situ Germanorum Tacito (che probabilmente parlava in modo inconsapevole dei Celti, per via delle notizie ricevute e su cui basava il suo racconto) mi sentivo come un pioniere in avanscoperta in una terra sconosciuta e mi ero preparato a vedere orde di giganteschi esseri biondi, vestiti in pelliccia d’orso, pronti a difendere il proprio territorio e la propria famiglia dagli stranieri invasori. Pertanto avevo indossato una sorta d’elmetto psicologico ed ero pronto alla pugna: solo che non avevo ancora capito che l’unica guerra era nella mia, oserei dire fervente, immaginazione.

Viaggio lunghetto, quindi partenza di prima mattina.

Salito sul pullman dopo aver consegnato il bagaglio al guidatore, un simpatico signore paffuto di mezza età, adocchiai un posto non lontano dalla porta posteriore del mezzo vicino ad una ragazza minuta, dunque non proprio quella che potrei definire una walkiria bionda. “Es ist frei?”, chiesi con un sorriso a 32 denti (quelli del giudizio me li hanno tolti da molto tempo oramai, e purtroppo lo si capisce conoscendomi bene!). “Ja, natürlich!” rispose la ragazza con una flebile e graziosa vocina, mentre era tutta intenta a scrivere cartoline. Bene, pensai, anche questa è fatta! Nemmeno avessi scalato una montagna.

Quando si viaggia assieme a perfetti sconosciuti è istintivo osservare i propri compagni; questo di solito è quanto facciamo noi italiani. I tedeschi invece no, almeno all’apparenza. In realtà non è così, ma la loro riservatezza, che noi scambiamo spesso per freddezza, fa sì che non manifestino apertamente interesse per chi siede loro accanto. Io, per difendere le italiche tradizioni, con finta nonchalance mi massaggiavo il collo (in effetti un po’ dolorante a causa di una nottata non proprio tranquilla durante la quale avevo ingaggiato una lotta all’ultimo sangue con il cuscino nuovo); nel contempo, però, muovendo la testa passavo al setaccio il mio “campo di battaglia”. Alla mia destra, sull’altro lato del corridoio, c’erano due vecchietti. Penso avessero una settantina d’anni entrambi: lui con i baffetti stile kaiser Wilhelm II, ultimo imperatore di Germania, ma con un’aria simpatica che di imperiale cipiglio ben poco aveva, mentre lei sembrava la nonnina del cacao (i “diversamente giovani” sanno a cosa mi riferisco!). Si tenevano teneramente la mano fin dalla partenza e se la sarebbero tenuta a lungo durante tutto il percorso, come ebbi modo di constatare in seguito. Mi fecero subito pensare ad un termine tedesco: Zweisamkeit, che forse si potrebbe tradurre in italiano con “dualitudine”, l’essere in due. I miei studi di quella che secondo me è una lingua per molti versi simile a quella tedesca perfino più del latino, ossia il greco antico, mi fanno mettere in relazione questo termine con il “duale”, tempo che i greci antichi usavano proprio per esprimere la dualità, un concetto che in italiano non abbiamo, ma che vuol rendere l’idea della coppia. Per i protestanti è più importante il rapporto di coppia, mentre per i cattolici lo sono di più i figli. Magari i miei due compagni di viaggio erano di quest’ultima religione o forse non ne seguivano affatto una, ma a me piacevano molto.

Come compagno di viaggio m’ero portato il libro del mio amico Roberto Giardina Guida per amare i tedeschi, lettura che consiglio vivamente a quanti vogliano capire nel profondo lo spirito del popolo di Goethee Beckenbauer; così nel leggere il suo divertentissimo racconto, sorridevo di tanto in tanto da solo, come uno stupido, cosa questa che finì per attirare l’attenzione dei miei “compassati” vicini. Alla prima fermata del pullman mi accorsi infatti che tutti quelli che mi avevano osservato, smentendo il fatto che non fossero gente poco curiosa, nell’uscire buttavano un occhio su che tipo di libro stessi leggendo. Fu così che scoprirono, nonostante il mio aspetto fisico potesse sembrare quello di un loro connazionale, che in realtà ero un figlio della terra dove fioriscono i limoni come, con una punta d’orgoglio pensando alla meravigliosa poesia di Goethe, m’immaginavo io in un primo momento o, se preferite, del Paese della pizza, del mandolino e di Berlusconi, come più realisticamente e con maggior probabilità stavano pensando loro; dubbio questo che m’attanaglierà per il resto dei miei giorni, perché non gliel’ho mai chiesto.

Un’altra caratteristica dei fratelli non emigrati di quello che da noi è diventato un famoso cuoco, Heinz Beck, è quella di portarsi appresso, si trovino in metro o in un edificio pubblico, dei pacchettini che tirano fuori all’improvviso da sacche e borse varie. Aperta la carta stagnola con cui in genere sono avvolti, ecco che compaiono burrosi panini dai mefitici odori, il cui contenuto reale è ancora sconosciuto anche agli esperti dei Nas. Ebbene non potevano fare eccezione i viaggiatori del mio pullman. Me ne accorsi ben presto quando la mia lettura fu bruscamente interrotta da un senso di svenimento, dovuto appunto ad uno di questi “effluvii” che m’invase le narici. Una gentile Fräulein, che sedeva nel sedile dietro al mio, aveva stabilito che fosse ora di fare merenda, facendo partecipi anche i vicini di questo lieto evento. Si sa, noi italiani siamo sopravvissuti anche alla calata dei Lanzichenecchi, pertanto io feci la mia parte per non far sfigurare il popolo italico difronte a questa ennesima e durissima prova.

Una cosa nella quale siamo invece un po’ meno bravi è rinunciare al nostro modo d’essere ed alle nostre consuetudini, soprattutto se quest’ultime richiedono praticità piuttosto che gusto per l’estetica ed affettazione. I tedeschi in questo ritengo che ci superino di gran lunga. E’ vero, peccheranno di eleganza, ma sanno cosa sia essenziale. Così ho trovato stupendo (e non sono ironico) il fatto che la mia graziosa ed esile vicina, ad un certo punto del viaggio, evidentemente stanca dello stare tutte quelle ore in una posizione scomoda, si togliesse le scarpe per indossare dei voluminosi calzini di lana e poggiare i piedi sull’apposita staffa del sedile di fronte. Alcune persone italiane che conosco io avrebbero arricciato il naso quasi inorridite. Questa cosa, al contrario, secondo me aveva messo in pari l’odore del panino di prima.

Questo episodio mi fece pensare a come le borse delle ragazze tedesche somiglino un po’ al gonnellino di Eta Beta. Se le osservate con attenzione vi accorgerete che ancor più delle loro coetanee italiane vi ripongono ogni sorta di cose: dal panino di cui sopra, alla voluminosa bottiglia d’acqua o Apfelsaft; dai trucchi di vario tipo ai calzini per l’appunto. Tutto questo per non parlare del quasi mai irrinunciabile libro.

Dopo più di 5 ore di viaggio arrivammo a Norimberga, città che vi consiglio vivamente di visitare se non ci siete mai stati. Io lo feci per la prima volta nel 2004 e la trovai fin d’allora molto bella. Per chi ama la storia è fonte di stupore vedere come sia stata ben ricostruita, in larga parte, secondo il suo impianto urbanistico originario. Dal castello imperiale degli Hohenzollern, alla doppia cinta muraria del XIV-XV secolo; dallo Zeppelinfeld, il famoso stadio ancora parzialmente visibile, progettato da Albert Speer l’architetto del regime, per le oceaniche parate di Hitler e compagni, allo storico palazzo che usarono gli alleati per fare il famoso processo, dopo la guerra, ai criminali nazisti. Era l’unico edificio di una certa grandezza vicino ad un carcere che fosse rimasto in piedi dopo i bombardamenti, in tutta la Germania.

Mentre aspettavamo che alcuni “compagni di viaggio” ci abbandonassero perché giunti a destinazione, e che se ne aggiungessero di nuovi, notai con un certo stupore gli addetti alle pulizie delle toilettes poste di fronte al pullman. Stavano lucidando le pareti interne delle stesse: il paragone con i servizi pubblici in Italia mi venne spontaneo, soprattutto pensando ad alcuni gabinetti nei dintorni della stazione Termini a Roma, mia bellissima e sfortunata città natale. Non c’era partita, decisamente.

Perfino il mezzo sul quale viaggiavamo m’ha spinto a fare il paragone con il Belpaese; ricordo ancora come un incubo il tragitto fatto con un pullman di una nota agenzia che collega la Puglia alla capitale: partimmo alle nove del mattino ed arrivammo a notte fonda perché il magnifico mezzo, probabilmente coevo di Mazzini, aveva giustamente deciso di prendersi una pausa di riflessione lungo il percorso. Si sa, con gli anziani ci vuole pazienza. Al contrario il teutonico torpedone denunciava la propria gioventù a partire dal nome: Grüne Fernbus (magari inquinava più di una miniera di carbone, ma in Germania tutto è preferibilmente grün). Ad ogni modo la stoccata finale al mio orgoglio nazionale me la diede il tv led ad alta definizione posto a metà veicolo che permetteva anche a quanti fossero in fondo di vedere la strada e la vista che si godeva davanti, tramite apposita telecamera.

Sul mio biglietto c’era scritto “arrivo previsto per le 16.25”, ma i tedeschi si tengono larghi per non deludere le aspettative. Ed infatti arrivammo con oltre 20 minuti d’anticipo.

Sono stato solo tre giorni sul posto, ma sono stati sufficienti ad assaporare le differenze che ci sono con il nord. Vorrei raccontarvi della padrona di casa della mia amica, Frau Weber, della sua simpatia e della logorroica voglia che aveva di parlare con noi italiani; vorrei anche dirvi delle tante ed importanti industrie che ci sono da quelle parti in un raggio di trenta chilometri circa, oppure delle bellezze paesagistiche o di quelle architettoniche di Ulm. Vorrei, lo vorrei tanto…, ma poi mi picchiereste per la lunghezza di questo post…



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